“LA GIARA”
Atto unico di Luigi Pirandello
“Cu è supra comanna e cu è sutta si danna” dice un antico proverbio siciliano. Ed è così che Luigi Pirandello dipinge magistralmente il netto contrasto tra la sciocchezza di un benestante massaro Don Lolò, che non sa neppure godere dell'abbondanza dei beni di cui la natura lo colma, e l’abilità di un povero consalemme Zi’ Dima, costretto a subire le arroganze di chi sta sopra. La giara, facente parte della raccolta pirandelliana Novelle per un anno, scritta nel 1906 e convertita nell’ottobre del 1916 in una commedia teatrale, venne rappresentata per la prima volta al teatro nazionale di Roma dalla Compagnia Angelo Musco il 9 luglio del 1917. Essa sviluppa molti dei punti cardinali della poetica di Pirandello: l'attenzione per situazioni paradossali e al limite del grottesco, la focalizzazione su personaggi caratterizzati da un assillo quasi maniacale, il ricorso ad una soluzione "umoristica" per sciogliere le intricate vicende narrate. La novella vede protagonista don Lolò Zirafa, un uomo ricco e ossessionato dalla brama del possesso, che vive nella perenne e logorante diffidenza nei confronti del prossimo. Spinto dalla convinzione che chiunque desideri derubarlo, sottraendogli la "roba" cui ha consacrato un'esistenza, trascorre il suo tempo denunciando malcapitati e dissipando il suo denaro in processi persi in partenza. Anche il legale di don Lolò, che pur si arricchisce grazie alla nevrosi del suo cliente, arriva al punto di non sopportarlo più. Un giorno don Lolò acquista una giara molto grande per contenere l’olio della nuova raccolta, ma il contenitore si rompe inspiegabilmente a metà. Il ricco Zirafa si vede costretto a rivolgersi quindi all’artigiano Zi’Dima, di cui ovviamente però non si fida. A causa della sua sospettosità perenne, don Lolò non si accontenta del metodo che l’artigiano gli propone per riparare la giara (e cioè, utilizzare un portentoso “mastice”), e lo costringe ad aggiungere una saldatura di ferro. Così Zi’Dima, dopo essersi lamentato della pochissima fiducia riposta nelle sue capacità di artigiano, deve entrare nella giara per portare a compimento il lavoro aggiuntivo voluto da don Lolò. Non calcola però il ristretto collo del contenitore e, a lavoro terminato, si rende conto di essere rimasto goffamente intrappolato all’interno della giara stessa, e che l’unico modo per uscire dalla sua prigione di terracotta, è quello di romperla, rovinando così definitivamente il contenitore di don Lolò. Quest’ultimo, dal canto suo, afferma di voler essere risarcito per il danno che verrà fatto alla sua proprietà. L’artigiano rifiuta categoricamente, dicendo che nella giara si trova benissimo e non ha nessuna fretta di uscire, e ribattendo che non si sarebbero trovati in questa situazione se don Lolò non avesse insistito per l’inutile saldatura aggiuntiva. Il ricco don Lollò va su tutte le furie, e preso da impeto di rabbia, infrange la giara con un calcio: Zi’Dima si trova così libero senza aver compiuto alcun atto lesivo nei confronti della proprietà di don Lolò, che esce così sconfitto dalla contesa, senza giara e senza risarcimento. Traspare palesemente la contrapposizione tra due mondi sociali che resteranno sempre distanti e non troveranno mai un punto d'incontro: quello dei ricchi e dei proprietari terrieri, rappresentati da don Lollò, e quello dei lavoratori e dei poveri, rappresentati da Zi' Dima, che non potranno migliorare la propria condizione col proprio lavoro o con l'ingegno. Al don Lollò che non trova mai la misura della propria esistenza, vivendo i suoi giorni in una litigiosità continua che lo mette contro tutti, si contrappone Zi' Dima che, al contrario, gode il rispetto di tutti non solo per la sua abilità di conciabrocche, ma anche per una certa capacità di entrare in rapporto amichevole con gli altri. Alla figura di Don Lolò, irrispettoso verso tutti e persino verso la religione, è in antitesi quella di Zi' Dima, superbo e scostante, privo di poteri e risorse materiali, ma consapevole della dignità del lavoro che egli esegue con onestà e scrupolo e che considera unico per l'uso di quello che egli ritiene come una sorta di bene intellettuale: il suo miracoloso mastice. Nel rapporto antitetico tra due figure completamente diverse, entrambe poco consce dei propri limiti, ma accomunate dalla stessa cocciutaggine contadina e mosse dai loro istinti, Pirandello riesce a creare una comicità basata su una situazione grottesca: una circostanza nella quale ciascuno dei due diventa al contempo debitore e creditore dell'altro. E non solo questo ma anche il modo in cui vengono rappresentati i due personaggi è significativo: dallo storto, Zi' Dima, come un vecchio olivo saraceno, di una vecchiaia senza età, nella quale gli anni si perdono in un tempo senza memoria; al don Lollò che, non viene descritto fisicamente, ma nel suo comportamento, è caratterizzato da un'estrema frenesia tanto da essere sempre sgocciolante di sudore e rosso in volto per l'agitazione e la continua rabbia. Due personaggi a confronto, ciascuno calato in una condizione di solitudine nella quale cercano di difendere la “roba” per l'uno, il “mastice” inventato per l'altro; e per quanto si affannino, non riescono mai a trovare la soluzione dentro se stessi e dato che nessuno dei due contendenti può o vuole andare incontro all'altro, si arriva ad una situazione di stallo in cui non è più possibile distinguere chi abbia torto e chi ragione. Alla fine, anche se la simpatia del lettore va a Zi' Dima, il nostro senso di pietà un po' indulgente, va a don Lollò che non ha mai trovato la misura della propria esistenza, tanto da perdere se stesso e le proprie sostanze tra continue liti, tutte regolarmente perse. Anche Zi' Dima perde, preso dalla rabbia e dall'impotenza, oltre che dall'incapacità di concepire una vita diversa, più a misura d'uomo: è il solitario personaggio che mal si lega a qualsiasi norma di convivenza civile, che si crea un suo mondo particolare nel quale nessun altro ha il diritto di entrare. Oggi, nel rispetto assoluto del testo – rigo dopo rigo, parola dopo parola – priva di tagli, orpelli e meccanismi realizzativi che possano sbiadire la sua originalità, “La giara” viene riproposta dall’Associazione Saro Costantino poggiando la propria rappresentazione sulla sua “originale parola”, proprio come l’ha pensata e scritta Luigi Pirandello, colorata soltanto delle inedite e splendide parole di brani musicali che danno un tocco in più alla sicilianità per eccellenza che tale testo rappresenta, appagando la volontà pirandelliana di fare della sua commedia, un vero tributo alla cultura ed al linguaggio siciliano. L’accoppiata tra l’originalità del testo e quella dei brani appositamente scritti e sapientemente musicati dall’indiscussa bravura del gruppo etnico “Malanova”, fanno infatti di questo lavoro un’eccezionale prodotto culturale; così il testo de “la Giara” di Luigi Pirandello, già musica teatrale, diventa, con i Malanova, musica nella musica. Ma cosa differenzia questa rappresentazione dalle altre a parte l’originalità dei brani? Ma è proprio nella protagonista indiscussa “la giara” che va ricercata la risposta. E allora perché non colpire l’emozione del pubblico sin da subito con la visione della “maestosità” di questa giara simbolo dell’abbondanza atta a contenere l’olio dell’annata...di questa giara “ranni quantu na casa”, “chi veni” da così tanto lontano: “Santu Stefunu di Camastra”, “alta a petto d’uomo, bella panciuta e maestosa, che fosse delle altre cinque la badessa”. Ed è proprio intorno a lei, mitico oggetto di terracotta, che ruotano due mondi: quello ridente e festante dei contadini, pur consapevoli del loro ruolo di persone sottomesse ai padroni, e quello dei due co-protagonisti, in perenne contrasto tra loro. E così, prima di entrare nel racconto vero e proprio di Pirandello, che si sviluppa dal tramonto di una giornata di lavoro fino alla notte del giorno successivo, il nostro spettacolo inizia a raccontare la quotidiana vita contadina, sin dal canto del gallo che segna l’inizio della giornata lavorativa colorata dalla sicilianità di quel personaggio che è il coro dei contadini, ora affaticati, ora gioiosi, allietati da un bellissimo paesaggio, fin tanto che arriva, quasi con le prime luci dell’alba e quasi per magia, la prima protagonista: questa bella giara nuova, “pagata quattr’onze ballanti e sonanti”. Arriva in scena su un carretto a sbalordire tutti: “una giara così non s’era mai veduta”, e dopo essere stata slegata e scaricata va ad essere temporaneamente allogata, in attesa del posto da trovarle in cantina, nel palmento. E...”Oh! oh! picciotti! A ttia nicu ddocu! Chianu, santu diavulu! stati accura!“...comincia lo spettacolo.